EINSTEINIANA


di peter patti
(peter.patti@t-online.de)

E= mc²  
 

Nel 1905 (otto anni prima che Gideon Sundback di Hobocken, New Jersey, facesse patentare la chiusura lampo), un ometto dai capelli folti e crespi, ebreo (ma ebrei erano anche Marx e Freud), rese pubblica un’ipotesi di lavoro che portava il titolo di Teoria della relatività. Questi studi, che segnarono l’inizio della fisica moderna, conferirono al loro autore una fama imperitura.

In seguito, la prima moglie dello scienziato avrebbe riferito che lui a casa si comportava da autentico despota: quando si ritirava nella sua stanza non voleva sentire volare nemmeno una mosca; inoltre i familiari dovevano tenersi sempre pronti a soddisfare ogni suo desiderio. Può darsi, in effetti, che il successo gli avesse dato un po’ alla testa. Ma Einstein cercò sempre di evitare i bagni nella folla. Piegato sulle sue carte, proseguiva a fare calcoli - si trattava di fisica? di pura matematica? - sobbalzando ogni qualvolta un suono proveniva dall’esterno. Allora tirava fuori il suo orologio da tasca senza catena e con coperchio a scatto, fissava con inquietitudine il quadrante e la fronte gli s’imperlava di sudore.

Ma Einstein era dotato anche di una certa dose di buon umore, come testimoniano queste sue parole pronunciate durante un convegno per spiegare la relatività:

"Quando un uomo passa un’ora in compagnia di una bella ragazza, a lui sembrerà un minuto. Ma fategli passare un minuto seduto su un forno acceso, e quel breve lasso di tempo gli sembrerà più lungo di un’ora."

Consultava l’orologio, provando un inspiegabile senso di colpa. "Ancora quanto?" si chiedeva. E, mentre studiava e rimuginava, nell’Africa sud-occidentale tedesca scoppiava la rivolta degli Ottentotti, che l’esercito colonizzatore di Guglielmo II riusciva però a tenere a bada fino a soffocarne i focolari. Einstein/Nietsnie ansimava sul quadrante della cipolla ("Oh, quanto ancora?") e il nuovo secolo lasciava già intravedere ciò che sarebbe diventato: un’èra crudele, costellata di colpi di scena e colpi di maglio, di lampi di genio e lampi di morte. La chiave meccanica e il bisturi raccoglievano i primi trionfi; nelle grandi città si passava dalla lampada a petrolio all’elettricità; la gente si spostava sempre meno in omnibus (il tram trainato da cavalli) e scopriva il pacere di viaggiare in automobile.

Nel 1903 fu pubblicato a Vienna - e, quasi contemporaneamente, anche a Lipsia - Sesso e carattere, di un certo Otto Weininger. Un libro di 600 pagg. il cui tredicesimo capitolo, intitolato L’ebraismo, negava che gli ebrei possedessero un’anima: "perché appartenenti a una razza femminea". Weininger (che in una nota a piè di pagina si riconosceva ebreo) si sarebbe suicidato pochi anni dopo. L’idea della bisessualità, come successivamente si scoprì, era plagiata dal libello antisemita di un certo Fliess; tutte le teorie pseudoscientifiche di Sesso e carattere (che in molte case trovò posto sul focolare, accanto alla Bibbia) si rifacevano al "biologismo" tedesco, che esaltava la superiorità della razza ariana e negava agli ebrei ogni possibilità di integrarsi nella società.

La censura del Reich sapeva dove colpire e dove invece chiudere un occhio o addirittura entrambi. Per il suo dipinto Il bacio, che mostra una ragazza nuda, Gustav Klimt dovette trascorrere tre mesi in gattabuia. Nello stesso tempo il Simplicissimus, un periodico umoristico la cui ironia mordente non risparmiava nessuno dei personaggi della politica e dello spettacolo, raggiungeva tirature vertiginose.

Nel 1909 fu dato l’annuncio della scoperta di un medicamento contro la sifilide: il ‘Salversan’. Un decreto governativo stabilì che in Germania i bambini dai nove anni in su potevano lavorare nelle fabbriche in turni di "sole" dieci ore. Il Kaiser ricevette a Potsdam la visita dello zar Nicola II.

Nel 1911 vi fu la crisi del Marocco, che la Germania risolse inviando la corazzata Panther. I due anni successivi videro lo svolgersi delle guerre balcaniche

La risonanza ottenuta dalla Teoria della relatività consentì ad Einstein di lasciare Berna, dopo sette anni di lavoro nell’Ufficio Brevetti della capitale elvetica, per assumere la docenza di fisica teorica dapprima all’università di Zurigo, poi a quella di Praga. Intanto il fisico americano Millikan confermava la validità della formula E=mc² tramite esperimenti con le fotoemissioni (1912-1915).

  Vista nel suo insieme, la teoria della relatività è una combinazione di arte matematica, intuizione fisica e saggezza filosofica. Essa si può riassumere così: spazio, tempo e massa dipendono dalle condizioni di chi osserva (se si muove, se sta fermo, ecc.) e sono, perciò, grandezze relative.

Questo assioma, che all’apparenza è semplicissimo, porta con sé implicazioni assai vaste.

All’inizio del XX secolo il mondo fisico si presentava alquanto stretto. Albert Einstein fece saltare le barriere visive, allargando gli orizzonti e offrendo allo sguardo nuovi territori da esplorare. Nel contempo, smentiva i sostenitori di un universo infinito: secondo lui, il cosmo aveva un raggio di appena un miliardo di anni luce.

Einstein, come Spinoza e Leibniz (e come più tardi Merleau-Ponty), ci insegna che ogni punto nell'universo è il centro dello stesso universo. Oggi purtroppo la sua teoria della relatività viene ricordata soprattutto per essere alla base degli esperimenti che condussero Enrico Fermi, Robert Oppenheimer e gli altri scienziati di stanza a Chicago, alla costruzione della prima bomba atomica .

"Ancora quanto?" si chiedeva l’ometto dai capelli folti e crespi. Poi, davanti allo specchio, si mostrava una lingua lunga lunga. "Ma sì! Tanto, il tempo non è che la quarta dimensione dello spazio."

Il tempo è la quarta dimensione dello spazio. Questa scoperta basta da sola a influenzare la nostra visione della realtà, dato che non possiamo limitarci a prendere atto della struttura dell’universo e della nuova posizione del mondo come se fossero cose che non ci riguardano affatto. Ogni giorno ci càpita di fare delle esperienze che non sono analizzabili con il metodo prettamente scientifico e che quindi non sono comprensibili alla ragione. Poiché siamo per così dire prigionieri in una rete fenomenologica, ci sfuggono i processi che avvengono al di fuori della nostra sfera personale. Tutt’attorno a noi regna la metafisica. (I rappresentanti della Scuola di Vienna credevano di essersi congedati definitivamente dalla metafisica; con due sole eccezioni: Wittgenstein e Karl Popper. Il primo, specialmente, limitò in modo drastico il campo dello scientificamente spiegabile.)

La realtà in se stessa non possiede una struttura che permetta di poterla "afferrare" con i mezzi della ricerca tradizionale. Gli scienziati sono costretti a ‘tagliare’ tranci di realtà e ad analizzarli singolarmente; e non si può arrivare a conoscere il tutto studiandone solo alcuni frammenti. E’, insomma, la fine dell’epoca cartesiana: dobbiamo arrenderci e ammettere che la vita non è come noi la percepiamo, che non ogni cosa può essere posta sul vetrino del microscopio; che chiunque può avere delle emozioni non comunicabili e quindi non catalogabili.

Oltracciò, nell’istante in cui affermiamo che il futuro è incerto, sottintendiamo una sorprendente verità: ossia che la Creazione... è ancora in corso. E dove si compie la Creazione? Si compie dovunque: anche nell’uomo e con l’uomo. La Creazione è lo stesso divenire (che alcuni chiamano "evoluzione"), e il divenire non accade nel tempo: ‘è’ il tempo!

"Ma che ora è?"

Mentre Nietsnie/Einstein tirava fuori l’orologio da tasca senza catena e ne sollevava il coperchio azionando il meccanismo a scatto, un giovanotto di nome Adolf Hitler, un artistucolo di belle speranze, si trovava a Vienna ospite di un asilo per soli uomini il cui titolare risultava essere un certo Schlomo H.: un ebreo...

Il piccolo uomo con l’alto Q.I. fu sospinto fuori dal suo studio.

"A che ora è la conferenza?" chiese.

L’orso che lo scortava rispose: "Alle sedici."

"Alle sedici?"

"Alle quattro del pomeriggio."

"Lo so che le sedici sono le quattr... Intendevo: alle sedici? Così presto?"

"Se vuole possiamo anche rimandare. Va bene alle sedici e trenta?"

"Ciò significa: alle quattro e mezza?"

L’orso non aggiunse altro. Intanto, attorno al genio si andava radunando una folla. Che facce!, pensò l’insigne professore. Sembrano il passaggio dall’Uomo di Neanderthal a quello di Scimunithal. Tutti volevano sapere da lui che ora fosse. Rispose: "Non ne ho la più pallida idea. Tutto quel che so è che ci troviamo di nuovo con un piede nell’Età della Pietra. Io sto già cercandomi una caverna."

Lo stringevano in una morsa. Era insopportabile. Ogni volta che apriva la bocca o muoveva un passo, venivano fatti partire fonogrammi per tutti i paesi del mondo.

"Oggi è nervosetto, eh?" constatò la sua guardia del corpo, mentre lo guidava nell’Auditorium.

"Nervosetto?" gli ribatté. "Sono imbufalito. Ma è naturale. Con questa guerra..."

"La guerra? Ma dove?"

"Laggiù... là dietro... in Turchia, mi pare." Si lamentò poi: "Per noi professori non ci sono torri d’avo-rio, e perciò dobbiamo darci da fare per non diventare le vittime del nostro stesso sapere... Piano, per favore. Non spingete."

La sala era gremita non soltanto di eruditi e di dilettanti interessati al pensiero scientifico, ma anche di portaborse, segretari, contabili e tecnici: gli ‘agenti segreti’ del governo e del capitale.

Uno scienziato non deve necessariamente tener conto della morale; ma quanto più tranquillamente egli potrebbe lavorare se i capi politici non cercassero di continuo di carpirgli i segreti per la costruzione di una qualche arma micidiale! Quanto più tranquillamente, se i magnati della finanza (i vari Rockfeller, Rothschild, Montefiore, Hirsch, Guggenheim, Morgan) la smettessero di sfruttarlo per i loro profitti!

L’ometto si fece coraggio e si portò al centro del palco. Nuvoletta rosa... folla entusiasta... ecco che ora sale s’uno sgabello: lui, la star del momento - Albert Einstein!

A mani vuote? Senza nessun appunto da cui leggere? Un giornalista espresse il suo stupore. E lui: "Non ho certo bisogno del copione. Conosco tutto a memoria. E poi" aggiunse, "mi piace improvvisare. Sicuramente saprete che Mozart ‘si scrisse’ in testa concerti interi: il trasporli sulla carta pentagrammata rappresentava per lui solo un dovere faticoso. Inoltre, credetemi: non si può registrare ogni cosa." Provocò: "Io trovo che sia un bene quando uno ha qualcosa da nascondere. Per me la forza d’immaginazione vale molto di più che il sapere accumulato in tanti anni di studio... Il futuro? Mi chiedete come vedo il futuro. Se ve lo dicessi, rimarreste di sasso."

Dietro il pulto, ricominciava a sudare, in preda all’angoscia. Guardò l’ora. Le diciassette? O, di già, le cinque antimeridiane? Si volse verso il suo assistente per inquisire su quella faccenda, ma la sfilza di domande che gli piovve addosso lo sviò dal proposito. Non lo lasciavano nemmeno respirare! Andò alla lavagna e prese il gesso.

  Fin da Newton, nessuno aveva posto in dubbio l’esistenza di una massa costante. Ci vollero Max Planck con la sua teoria dei quanti e Niels Bohr con le sue conclusioni sulla struttura degli atomi per sbugiardare la fisica newtoniana. Mentre per Newton la massa "definisce" l’energia cinetica, per Planck e Bohr ogni sistema possiede, insieme all’energia cinetica, anche quella termica; di conseguenza, se la massa è rappresentata dall’energia pura, essa non può risultare costante in rapporto alla condizione termodinamica.

Con la teoria della relatività, Einstein andò perfino oltre. Basandosi sugli esperimenti di Michelson del 1881, che dimostrano come la velocità della luce non si lascia condizionare dai movimenti dei corpi attraversati, egli negò la concezione di tempo assoluto. Da questo momento in poi, anche grazie alla matematica di Lorentz e Minkowski, che si serve di unità di tempo immaginarie (e dunque non reggevano più nemmeno i fondamenti del calcolo infinitesimale posti da Newton e Leibniz), non esistono né lunghezze assolute, né corpi perfettamente statici. Venendo a mancare la possibilità di determinazioni quantitative, cade anche il concetto classico della massa quale rapporto costante tra forza e accellerazione.

Appaiono tuttora straordinari il cinismo e l’irreguardevolezza di queste ipotesi, che ammettono addirittura casi in cui i termini ‘prima’ e ‘dopo’ possono capovolgersi. Mentre le scoperte di Max Planck erano conosciute unicamente nel ristretto circolo degli esperti in materia, la teoria della relatività fu un tema discorsivo prediletto da persone di tutti i ceti. Niente riesce ad attirare l’uomo più degli assiomi rivoluzionari sullo spazio e sul tempo. Era stato così anche all’epoca di Galilei e Copernico, allorché il sistema astronomico venne interamente mutato.

"Ponete domande semplici" pregava. "Ponete domande semplici e riceverete risposte semplici."

"Signor Einstein, che cosa si può fare con la teoria della relatività?"

"Che cosa si può fare? Probabilmente lo sapremo in un domani non troppo lontano. Di certo c’è che, tra sapere e potere, si apre una voragine. Dovremmo usare maggiormente la parte destra del cervello: la sede della fantasia, dei sogni, delle intuizioni." Il suo sguardo trasognato spaziò per la platea. "Chissà, forse l’idea che può migliorare il mondo si cela proprio nella parte destra del cervello. Non sto scherzando. Sono del parere che la nostra ignoranza si ingigantisce in misura proporzionale con cui si accresce il nostro scibile. Sappiamo... e non sappiamo niente! Siamo al cospetto di un mare enorme. Newton si paragonava a un bambino che gioca s’una spiaggia con delle conchiglie che le onde gli rubano di continuo."

Sconcertava. Ma loro non sembravano mai contenti. Ancora un’infinità di domande. Perché mi torchiano?, pensò. Mentre scribacchiava alla lavagna alcune formule, si disse: "Vogliono capire quant’è relativo il loro tempo, ecco la verità. Io lo so, ma come fare a spiegarglielo? Se non lo scoprono da sé... Bevono, e non si avvedono che l’acqua è un miscuglio di due gas..." Si tamponò il sudore. Il gesso stridette sulla lavagna.

"Sull’Oceano Pacifico" rifletté a voce alta, "corre il meridiano superato il quale si entra immediatamente in un’altra data." E poi, di nuovo a se stesso: "No. Inspiegabile, troppo profondo il senso vero. Come in Hölderlin: l’abisso tra il mondo dell’esperienza sensibile e quello dei concetti è invalicabile." Con una certa allegria, si ricordò di qualcosa che giorni prima aveva letto s’un giornale: uno scienziato teorizzava che la Terra, veduta dal cosmo, doveva apparire rossiccia. E questo perché la sua atmosfera assorbirebbe l’azzurro dello spettro di luce; ergo: tolto l’azzurro, rimane il rosso, rosso chiaro forse, o almeno rosa. Bizzarra prospettiva, ma non improbabile. "Che ora è?" tornò a chiedere, a chiedersi.

"E’ l’ora, già?"

"O c’è tempo?"

Forse pochi sono a conoscenza del fatto che Albert Einstein, verso la fine del 1894, lasciò Monaco di Baviera per trasferirsi a Milano. Un anno dopo, dunque nel 1895, rinunciava alla nazionalità tedesca. In Germania tornò non prima del marzo 1914, quando aveva già raggiunto una grande fama per i suoi lavori sulla fisica teorica.

Einstein covava la speranza di essere accolto nell'Accademia delle Scienze di Berlino: una cattedra all’Accademia gli avrebbe consentito di potersi dedicare alla ricerca scientifica "senza essere distratto da altri impegni di lavoro". Come c‘era da aspettarsi, l'Accademia accolse a braccia aperte l’insigne studioso, che nel 1901 aveva acquisito la cittadinanza svizzera, da cui non intendeva separarsi. Il troppo solerte ambasciatore elvetico si precipitò a denunciare al Ministero della Cultura prussiano "la probabile ascendenza semitica" di Einstein, ma ciò non sembrò disturbare né i funzionari dell’Accademia, né Guglielmo II, cui spettava l’ultima parola per decidere l’ingresso dello scienziato nell' "elitaria squadra di grandi spiriti" del Reich.

Soltanto nel 1925 Einstein si sarebbe sforzato di ottenere un documento d'identità tedesco, allorché la Svizzera rifiutò di fornirgli un passaporto diplomatico.

Nell'ottobre del 1914, i suoi colleghi e sostenitori Max Planck, Walther Nernst e Fritz Haber firmarono il bellicoso Appello "an die Kulturwelt" (al mondo della cultura), ma lui, sebbene fosse stato invitato a farlo, non appose la sua firma sul documento. Al contrario: diventò membro di un'associazione pacifista. Questo bastò perché la polizia lo considerasse un elemento sospetto e lo mettesse sotto sorveglianza. Nonostante le sue idee pacifiste, comunque, Einstein nel 1917 fu nominato direttore dell'Istituto per la Fisica ‘Kaiser Wilhelm’. La Germania cercava di legarlo a sé in tutti i modi, pur non vedendo di buon occhio le sue posizioni antibelliche. Anzi: fu proprio la sua tendenza al pacifismo a far sì che, negli anni Venti, il suo nome venisse utilizzato per scopi propagandistici, nella cornice della strategia "apolitica" di comprensione che il Reich perseguiva per ripulire la propria immagine all’estero. Un giornale di Berlino sottolineò l’importanza emblematica dello studioso (che oggi chiameremmo "un fenomeno mediale") definendolo addirittura "una parte rilevantissima di valuta tedesca".

Einstein, "ebreo di idee liberali e internazionaliste" (come si autodefiniva), divenne naturalmente uno dei bersagli preferiti dell'antisemitismo, che stava allargandosi a macchia d’olio. In lotta contro una fantomatica "fisica bolscevista", molti scienziati gli si dichiararono apertamente avversi. I viaggi che compì tra il 1920 e il 1925 (per un totale di 75 settimane) possono considerarsi una specie di emigrazione, di esilio politico.

Nella metà degli anni Venti (la Germania, ripresasi dalla sconfitta nella Prima Guerra Mondiale, era di nuovo una nazione potente), l'interesse per Einstein da parte degli organi governativi andò scemando. E ciò malgrado all’ebreo di Ulm fosse stato conferito il Premio Nobel - nel 1921: tre anni dopo Max Planck e un anno prima di Niels Bohr. Furono dimenticati i suoi meriti per aver aiutato il paese a riallacciare contatti con le altre nazioni, e gli attacchi contro la sua persona si moltiplicarono.

CAPUTH

Caputh è un idilliaco villaggio a sud di Potsdam. Poco dopo il suo cinquantesimo compleanno, Einstein vi fece costruire la sua casa, nei pressi di un lago. Per questo progetto dovette dar fondo a tutte le sue riserve pecunarie. "La casa è un fiasco" osservò, "ma un fiasco carino." A Caputh gli Einstein non possedevano nemmeno un frigorifero, ma se non altro in quell’amena località poterono trovare finalmente un po’ di pace.

A Caputh fu ospite, spesso e volentieri, Max Planck, che aveva procurato ad Albert la cattedra all’università di Berlino. I due colleghi erano separati dalle loro vedute politiche, perciò i loro rapporti non andarono mai al di là di una distaccata cordialità. Altri ospiti furono il Premio Nobel per la letteratura Tagore (un canuto gentleman in una lunga tonaca) e Thomas Mann. Di Thomas Mann, Einstein scriverà:

"Per tutto il tempo mi è apparso come un pedante maestro di scuola, tanto che avevo paura che si mettesse a spiegare a me la teoria della relatività."

Non poteva esserci coppia più male assortita di quella formata dal grande letterato e ardente patriota (soltanto più tardi Thomas Mann sarebbe diventato antitedesco) e dall’illuminato pacifista, nonché convinto sionista, Albert Einstein. Lo scienziato andava invece molto d’accordo con il fratello di Thomas, Heinrich. Insieme a Heinrich Mann (autore de L’angelo azzurro) e a diversi altri intellettuali, s’impegnò pubblicamente a denunciare i pericoli della Destra, le ingiustizie sociali e la povertà.

Quando voleva isolarsi del tutto, si rifugiava nella villa del suo medico curante, che era un ungherese. Durante una delle passeggiate compiute insieme a questo suo amico, Einstein si arrestò di colpo ed esclamò: "Se soltanto sapessimo che cos’è mai il vento!" Un altro giorno, mentre stavano sorbendo il tè, rifletté ad alta voce: "Come mai le foglie del tè si raccolgono nel fondo della tazza in un vortice?"

La sua attenzione era polarizzata da particolari che la maggior parte di noi non nota neppure.

All’università lavorava tutt’altro che volentieri. La prima lezione di uno dei suoi semestri fu anche l’ultima della serie. Al termine della conferenza, il cui tema era ‘Teorismi ed esperienze sulla questione dell’origine della luce’, si rivolse così alla massa di studenti: "Beh, il resto potete ricavarlo dai miei libri."

Gli veniva a noia soprattutto il dover chiarire ancora e sempre il medesimo concetto. ("Relativo" era in quegli anni uno dei vocaboli più alla moda.) "Un orologio montato s’un vettore che procede a una velocità molto elevata" spiegò, "raffrontato con altri orologi andrà molto piano." Oppure portava il famoso paradosso dei gemelli. "Se uno dei gemelli viene sparato nello spazio alla velocità della luce, quando tornerà si scoprirà molto più giovane del fratello rimasto sulla Terra, e il suo orologio mostrerà che per lui è trascorso molto meno tempo di quanto non ne sia trascorso per il resto degli individui."

Lo scrittore e drammatico George Bernard Shaw, di passaggio a Berlino, tenne un vero e proprio discorso elegiaco per il piccolo professore dai capelli incolti:

"Napoleone a altri grandi personaggi della storia hanno creato imperi. Ma ci sono uomini la cui creazione è molto più importante della loro. Questi uomini non creano imperi, bensì universi. E il bello è che, nel far ciò, le loro mani non si macchiano di sangue. Il mondo creato da Tolomeo durò millequattrocento anni. Quello di Newton trecento. Ignoro quanto a lungo durerà il mondo creato da Einstein."

Il rifugio di Caputh attirò numerosi visitatori. Troppi. Col passare del tempo, Einstein cercò vieppiù di isolarsi. Si recava nei campi per suonare il violino tra le canne alte; e suonava in modo talmente celestiale che spesso i pescatori tiravano i remi in barca e sostavano sulla riva del lago ad ascoltare la sua musica. Sebbene non sapesse nuotare e non fosse dotato di molto coraggio, era sua consuetudine spingersi al largo, tutto da solo, con una barca a vela che aveva ricevuto in regalo. Ritornava verso il tramonto e, nell’udire gli spari dei cacciatori di anitre, si appiattiva prontamente contro il fondo dell’imbarcazione.

Le cronache segnalavano intanto l’apparizione del primo comic-strip di Topolino e un nuovo record di velocità (il pilota M. Campbell raggiunse a Daytona, con la sua Napier-Campbell, la bellezza di 408,714 chilometri orari); ma ovviamente le notizie cui Einstein prestava maggiore attenzione erano di ben altro tenore. I giorni della Repubblica di Weimar sembravano ormai contati. Il crollo dell’Istituto di Credito Austriaco, avvenuto nel maggio del 1931, ebbe dure ripercussioni sul sistema bancario tedesco.

Limitò la sua vita mondana a poche apparizioni. A un concerto in una sinagoga suonò il primo violino. Dietro richiesta della Lega dei Diritti Umani, incise su un disco il suo credo, riconoscendosi pacifista e rifiutando qualsiasi tipo di idea nazionalista - anche quelle rivestite di ardore patriottico. Compilò un opuscoletto sulla tecnica della navigazione a vela (nonostante che come velista fosse appena un principiante) usando la stessa Underwood con cui scriveva lettere per la regina del Belgio, per Sigmund Freud e per Bertrand Russell.

Durante una delle solitarie passeggiate che intraprendeva nei dintorni di Caputh, ebbe una visione: sgherri in divisa gli sbarravano il passo, lo picchiavano a sangue ridendo sguaiatamente e gli indicavano un enorme cartello con questo avviso a caratteri gotici: ‘Fuori gli ebrei dai boschi tedeschi!’

Gli ebrei erano proprio il pallino dei fanatici nazionalisti. La domanda ricorrente era: cosa farsene di loro? Qualcuno suggerì di confinarli nelle semidesertiche lande a ridosso del Mar Baltico. Un’idea, questa, di vecchia data: in tal modo già Guglielmo I si era sbarazzato di marinai rivoltosi e di altri scomodi elementi. La paludosa provincia, se popolata, poteva essere resa fertile e l’intero vasto territorio recare un insperato incentivo in prodotti commestibili.

Un’altra possibilità era quella di sterilizzare gli ebrei attraverso un intenso trattamento ai raggi X. Ancora più facile sarebbe stato il separarli secondo il sesso, isolandoli in ghetti o in campi di concentramento: in capo a quarant’anni, la razza si sarebbe estinta. E ciò senza lo spreco di personale e di materiale che ai nazisti occorse per l’Olocausto... Tra tutte le vie possibili, i nazisti scelsero proprio la più atroce.

La Germania di Hitler avrebbe perso moltissimi campioni di scacchi. Sì, gli ebrei sono eccellenti scacchisti. Ovvio: questo gioco si adatta benissimo all’esistenza nei ghetti, alla vita di gruppo; non richiede né un’istruzione elevata né spazio eccessivo, e non costa neanche tanto. E’ accertato che i grandi giocatori di scacchi, così come i grandi musicisti, provengono nella stragrande maggioranza da comunità in cui regna un profondo senso della famiglia. Gli ebrei di Germania vincevano i tornei di scacchi e si segnalavano come magnifici musicisti - più come interpreti che come compositori -; inoltre si destreggiavano niente male nei labirinti della fisica moderna. Ma i motivi dell’idiosincrasia nei loro confronti erano da ricercarsi altrove, naturalmente: anzitutto, erano impareggiabili affaristi. Sfollarli significava perciò il sequestro di tutti i loro beni e, di conseguenza, il passaggio di una proluvie di negozi e negozietti nelle mani di tedeschi "ariani".

Nonostante la pretesa di una nordica nobiltà, la Germania conservava l’aspirazione ad appartenere alla cultura cristiana. E per tal motivo gli ebrei venivano marchiati come "parenti di Giuda": un’altra ottima scusa per toglierseli di torno. In realtà, essere ebrei deve considerarsi più una scelta spirituale che l’appartenenza a una razza o, più semplicemente, a una religione.

La grossolanità dei nazisti era tale che essi avrebbero preteso che gli scrittori ebrei scrivessero unicamente in ebraico, mai più in tedesco. Ipocritamente, arrivarono a condannare la teoria della relatività bollandola come "una trovata giudaica". Goebbels tuonò, profeticamente: "Un giorno perderemo sul serio la pazienza, e allora tapperemo all’ebreo la sua bocca bugiarda."

Adolf Hitler, la cui vita fu influenzata dall’astrologia, con le scienze naturali - e con la fisica in primo luogo - aveva un pessimo rapporto. Durante gli anni in cui fu al potere, non fece nulla per incoraggiare le ricerche sulla fisica nucleare; cosa che si sarebbe rivelata, a posteriori, una grande fortuna per il mondo intero.

La "soluzione finale della questione ebraica" sarebbe stata decisa solamente nel 1942, quando le sorti della guerra parevano ancora essere a favore del Terzo Reich. All’annientamento erano destinati tutti gli ebrei: anche quelli che si erano convertiti al cristianesimo. Dietro la carneficina, dunque, non si nascondeva nessun concetto ‘religioso’, ma la mera voglia di massacrare. Colpo dopo colpo, martellata dopo martellata, gli uomini del più grande agitatore della storia moderna diedero forma e corpo alla Nuova Teutonia. Cerberi con la giberna e con la fantasia rattrappita in un sarcoma lavoravano metodicamente per "ripulire le strade del Reich". La deportazione avveniva dietro il criptonimo "trasferimento". In apparenza, gran parte della popolazione ignorava quale fosse il destino di questi vicini di casa che venivano prelevati e costretti a montare su camion militari. E chi lo sapeva faceva bene a tacere.

Molti artisti di primo piano erano ebrei. A Berlino, il primo maggio 1933, venticinquemila libri di autori proscritti furono dati in pasto alle fiamme. Davanti al rogo, Goebbels elogiò l’azione "significativissima, rilevante e forte". E a Monaco, il 19 luglio 1937, egli denigrò la pittura "degenerata". Tredicimila tra acquarelli, disegni, incisioni e dipinti a olio sarebbero stati smerciati all’estero oppure ("l’inutile rimasuglio") bruciati. All’indice vennero messe le opere di Corint, Beckmann, Marc, Nolde ("bolscevista o pittore?"), Kirchner, Kokoschka...

Parecchi ingegneri, medici, uomini di lettere e specialisti in vari settori erano di origine ebrea. Nel 1933, l’industriale Bosch si recò da Hitler per pregarlo di risparmiare almeno i direttori ebrei della sua industria; ma il Führer gli rifiutò il favore con un secco "Nein!" Bosch dovette capitolare e continuò a condurre il suo lavoro con lo spirito di un Pilato: in fondo - si disse - aveva fatto quel che poteva. L’industriale fu uno dei tanti colpevoli senza... coscienza di colpa. Tenne gli occhi chiusi per tutti gli anni del regime nazista e fu come se i progetti che la sua industria realizzò in seno al Terzo Reich si svolgessero a sua insaputa, dietro le sue spalle.

Albert Einstein lasciò la Germania prima ancora che la situazione precipitasse. Aveva ricevuto l’invito a recarsi negli Stati Uniti per una serie di conferenze e, mentre Elsa, la moglie, preparava le valige, lui borbottò: "Anche Caputh è... kaputt."

"Cosa?" gli domandò Elsa.

Le disse: "Guardati bene attorno, perché non rivedrai mai più questa casa e questi paraggi."

Nel giorno dell’ingresso di Hitler nel Reichstag, lo scienziato si trovava in America e, seguendo il suo istinto, decise di non fare più ritorno in patria. Il 28 marzo 1933 annunciò la sua uscita dall'Accademia delle Scienze di Berlino e una settimana più tardi chiese che gli venisse accolta la sua definitiva rinuncia alla nazionalità tedesca. Prontamente, il governo del Terzo Reich mise sotto sequestro i suoi conti bancari, la sua casa estiva, la sua amata barca a vela.

Negli Stati Uniti gli diedero da compilare una scheda, come a tutti gli emigranti. Alla domanda: "A quale razza appartiene?", il fisico ebreo rispose:

"Alla razza umana."

La sua prima apparizione ufficiale negli USA fu a Philadelphia, dove, in un’aula della famosa American Association for the Advancement of Science (AAAS), spiegò l’equazione E=mc² . Accettò con gratitudine la cattedra all’Instituite for Advanced Study di Princeton e nel 1940 poté acquisire la cittadinanza americana. Agli inizi degli anni Cinquanta ebbe qualche piccolo guaio con la Commissione d’Inchiesta sulle Attività Antiamericane istituita del senatore McCarthy, ma niente che potesse veramente preoccupare uno spirito ben temprato com’era il suo.

Albert Einstein si spense a Princeton nel 1955. Aveva 76 anni.